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Valmorel, località paradisiaca del
Bellunese, che ispirò perfino Dino Buzzati, nello scrivere i libri I miracoli di Valmorel, e I
segreti del bosco vecchio, e dove
ho vissuto per qualche anno. E dove soprattutto, per due stagioni intere, ho
seguito un piccolo branco di caprioli. Dalle tane nel bosco alle radure di
pascolo. Dall’alba al tramonto.
Vestito in modo naturale, come per altro
faccio ancora adesso, e non usando saponi e profumi, mi celavo tra il fitto del
limitar della selva, ogni mattina, mezz’ora prima dell’aurora. Stavo immobile
misurando anche il respiro. Dovevo far parte del contesto, senza stonare. E con
il block notes ed una matita, le mani sempre gelate, brividi sulla schiena, ed
il culo bagnato, immobile attendevo.
E le prime luci dell’alba erano sempre
preannunciate nella mia radura, con l’arrivo di uno, a volte due maschi.
Uscivano dal fitto della macchia, guardinghi, testa bassa a brucare, lenti nei
movimenti. Era quello il momento più delicato. Facendo finta di niente
controllavano alzando la testa nervosamente a scatti, e muovendo le orecchie come un radar,
che tutto fosse sgombro da intrusi e pericoli per il resto del branco, che
composto da femmine, e maschi e femmine giovani, attendevano, per poi
appropinquarsi alla tavola imbandita, affamati.
Da lì a pochi istanti, uno ad uno sfilavano,
entrando nel prato, popolando la radura in salita della valletta. In tutto
erano dodici. Che emozione vederli liberi, tutti insieme! Un gruppo, forte come
una grande famiglia. Una grande famiglia di selvatici, riuniti nella natura.
Tutto più di un opera di Michelangelo, degli
studi e progetti di Leonardo da Vinci. Più anche della bellezza delle Tre Grazie di Antonio Canova,
o della perfetta cura e levigatezza delle opere di Alberto Viani. Più dei
volumi e delle figure dell’inglese Henry Moore e dell’equilibrio geniale del rumeno Costantin Brancusi, nelle due sue
opere che amo in particolare: Maiastra
e Uccello nello Spazio. Di più ancora era lo spettacolo che avevo davanti, nel grande palcoscenico
della natura!
Ed io ero lì, piccolo, immobile, occhi,
cuore e sensi tutti, spalancati a vedere e sentire. Cogliere tutto, in
equilibrio nel respiro della natura. In quei momenti capisci che non serve più
pensare, basta vivere. E tutto il tuo essere torna indietro, fino all’Uomo di Neanderthal, e ancor prima,
all’uomo delle caverne. Ricordi ancestrali ed indelebili anche dopo la morte
del corpo tornano a far capolino nelle emozioni, ed in questo nuovo e ritrovato essere impari l’alto significato di
Equilibrio.
Guardavo e scrivevo. Scrivevo di animali
apparentemente uguali, ma che poi si svelano, guardandoli attentamente, uno
diverso dall’altro, proprio come gli umani, per forma e colore, carattere e
movimenti. Emozioni da brivido, che si mescolavano con il freddo e con
l’umidità penetrante. Tanto che non riconosci più dove finisce una e comincia
l’altra.
Ho imparato, e capito allora che il
freddo è composto da un enorme componente psicologica, anzi non il freddo in sé,
ma il fatto di sentirlo, o meglio ancora di dargli bada. Ore e giorni diventano
settimane di mesi, lì carponi, sempre sotto il solito nocciolo, che ormai mi
era diventato amico capendo le mie intenzioni. E che spero un giorno di
rivedere, dopo oltre venti anni, magari un po’ cresciuto. So che un giorno
andrò a trovarlo.
Immagini e sensazioni che si son fissate
nel sangue e nelle cellule, e che mi hanno accompagnato, e mi accompagneranno
fino alla dipartita da questa splendida terra.
Dopo poco più di un’ora, con il sole già
in vista, ogni giorno, succedeva la stessa identica cosa. Come se avessero
sentito una campana che li chiamava dalla macchia, il maschio, il dominante, il
più vecchio, alzava la testa incominciando a muoversi in modo nervoso, creando
agitazione.
Era quello il segnale! Uno ad uno i caprioli sempre brucando a testa
bassa, ripiegavano verso il bosco. In breve la radura si svuotava. E sempre per
ultimo il maschio più grosso, fiero capobranco imbattuto fino ad allora dagli
altri maschi pretendenti del branco, palco erto al cielo e froge dilatate
all’aria alla ricerca di eventuali pericoli, seguiva il resto, fino a
scomparire pure lui.
Ed io restavo per qualche minuto ancora
immobile, incapace ancora di muovermi, intorpidito dalla visione e dal corpo
infreddolito. Nessun pensiero, al di fuori di quello che avevo visto, girava
nella testa. Aspettavo per un po’, sperando che uscissero ancora. E non lo
hanno mai fatto.
Sono animali seri i caprioli, non
tornano mai indietro sulle proprie decisioni. Differentemente da come fanno
certi uomini.
Finiva così, ogni giorno, il loro pasto
della mattina. Il secondo era all’imbrunire, e la successione dei fatti era praticamente
identica. Solo che io avevo meno freddo!
Ma al rientro, a notte piena, ero sempre
pensieroso, e non privo d’apprensione, anche se ingiustificata. A nulla erano
valsi i propositi di non temere le tenebre, fatti alla luce del giorno e a non
farsi ammaliare e insieme spaventare dalla ridda dei rumori del bosco notturno.
Ogni sera mi aspettava mezz’ora di cammino,
per rientrare al caldo a casa. Un cammino fatto con gli occhi indipendenti: uno
che ruotava convulso per trecentosessanta gradi, e l’altro fisso dietro, sempre
con la sensazione che un eventuale attacco sarebbe arrivato dalle spalle o che
qualcuno mi seguisse. Ma chi poi?
Occhi spalancati fino a dolermi,
orecchie spianate nella testa e naso dilatato, alla ricerca di odori molesti. E
persistente, un brivido che andava e veniva con il respiro del bosco
nell’oscurità, a volte totale, in quanto senza luna. Quei minuti, ricchi di
rumori e richiami. I rumori dei rami che
si muovevano col vento di notte diventavano impressionanti, tutto si
ingigantiva. Anche le ombre sembrava si
muovessero. E mi accorgevo, a volte, di
seguirle con la coda dell’occhio fin a vederle scomparire, e perfino di
scansarle con i piedi, quando si proiettavano a terra.
E poi gli uccelli che si davano il
cambio, quando veniva la notte, avevano voci diverse, e si muovevano con
piccoli, ma vigorosi voli da ramo a ramo, rumoreggiando fragorosamente tra il
fogliame secco rimasto attaccato
all’albero. Sapevo cos’era, eppure mi allarmavo. E poi sul terreno, a destra e
a manca, davanti e dietro, i topolini indaffarati frugavano tra le foglie,
scatenando rumori quanto un branco di elefanti imbizzarriti. Sembrava impossibile
che animaletti grandi poco più di un pollice potessero far così tanto rumore, e
timore. E ancora tassi e volpi, qualche volta perfino la furtiva martora si
aggiungeva al rumoreggiare notturno, insieme agli onnipresenti gufi, civette e
allocchi, e occhi che mi controllavano dall’alto dei rami, ruotando il collo
per trecentosessanta gradi, intimoriti ancor più di me.
Di notte il bosco, al contrario del
mondo degli umani, non dorme, anzi si anima di animali che prediligono le
tenebre, così come certi venti e certe nevicate notturne. Di notte, soprattutto
se sei solo, i sensi si acuiscono, le orecchie aiutano gli occhi a vedere, ad
intuire. Ma le sensazioni che si hanno spesso non sono reali. Di notte non si
vedono più i particolari, si vedono solo i volumi, come nella scultura, e
persino le ombre diventano volumi di colore uniforme, aria solida.
Ed è paurosamente emozionante
infilarvisi dentro.
E anche per questo la notte è bella,
affascinante e segretamente intima. Le tenebre ti aiutano a forzare i pensieri
dello scrigno dell’immaginazione. Fantastico e pauroso!
Ho ricordi vivi e chiari di nottate
passate nel bosco, appollaiato su un
ramo, a sentire e scoprirle, con il cuore in gola, e con il terrore di dover ad
un certo punto scendere dall’albero per tornare a casa. Dovevo raccogliere
tutte le mie forze ed obbligarmi a farlo. Era facile all’imbrunire salire. Ma
poi col passare delle ore, e l’arrivo dell’oscurità, i rumori sconosciuti e non
giustificati dalla privata visione, come l’anomalo abbaio cupo del capriolo, o
la voce stridula e preoccupante della piccola civetta mi caricavano di timori.
Al punto che il ramo su cui ero appollaiato diventava un riparo sicuro, tanto
come essere in una casa di pareti di mattoni.
Ed era mesto scendere e incamminarsi
verso casa. Ma ancora più demoralizzante era mettere piede dentro casa e capire
in un attimo di aver avuto paura stupidamente di niente e che a volte i veri
pericoli sono dentro e non fuori casa. Spesso mi invadeva il desiderio di
tornare fuori a respirare ancora quelle emozioni. E allora uscivo e mi sedevo
sulla panca del sottoportico a guardare il buio, fantasticando sadico, figure e
mostri vendicativi.
Nel bosco, e nella natura della nostra Italia,
né di giorno nè di notte, non c’è niente e nessuno che ci possa far del male.
E’ molto più pericoloso il nostro mondo, quello degli umani, e soprattutto di
giorno, quando i grandi “luminari” della politica e dell’economia, i grandi
burattinai, mettono in funzione i cervelli. Con una parola sola possono rompere
irrimediabilmente il delicato e già incrinato mondo. Credo che “quelli” fanno
meno paura di notte, avvolti con le loro pance piene nel pigiama di seta con le
loro iniziali ricamate, sprofondati in
materassi di lattice anallergico, ed i loro crani, custodia di dotti cervelli,
appoggiati su cuscini anatomici automodellanti. Il tutto chiusi e ben protetti
da case come casseforti.
Quelli non si rendono conto che i veri
pericoli per gli uomini, e tutto ciò che c’è intorno, sono loro.
E per questo motivo, che mi sento più
sicuro di notte, mentre il mondo dei “geni” dorme e danni non ne fa. Ma questo
è un altro discorso!
Non ho mai paragonato, e tanto meno accomunato,
il mondo degli umani con quello degli animali. Sono due cose completamente
opposte. Ed è per questo che mi relaziono con loro in modo diverso.
Gli uomini non sono animali e con questa
affermazione certamente mi inimicherò gli zoologi e antropologi. Ma l’uomo
tende ad umanizzarli, attribuendogli caratteristiche tipiche degli umani, snaturalizzandoli.
Così preferisco gli animali selvatici. Vederli
nel loro habitat, e vederli vivere con le leggi non scritte della natura, che
nessuno si è inventato, ma che sono nate insieme alla terra e che sopravvivono
indefesse, incontaminate e rispettate con zelo nei secoli dagli abitanti del
regno animale.
Loro non hanno bisogno per vivere di
regole scritte su cartelli multicolori
di ferro e plastica, e tanto meno di manuali di centinaia di pagine scritte con
parole incomprensibili a tanti, costellati di cavilli scritti con caratteri
minuscoli, ma da non sottovalutare.
Le loro leggi, le loro regole non son
scritte in calce da nessuna parte, ma si tramandano nei geni attraverso il
sangue. E così non le dimenticano mai e nessuno deve ricordargliele. E
soprattutto non servono poliziotti o vigili, e poi avvocati e giudici a
giudicare e condannare. Già la Natura stessa ci pensa, perché la natura sono
loro stessi.
Sento, ora che mi risveglio da questo
viaggio nel bosco con caprioli e volpi, che ho perso il filo di cresta che
stavo percorrendo.
Mi succede anche quando corro nella
natura. Mi perdo. Non solo con i pensieri, ma anche fisicamente. E lo faccio
consapevolmente, di proposito. E’ ormai un rituale. D’altra parte, i boschi che
attraverso non son certo le foreste dell’Amazzonia, ritrovarsi non è poi così
difficile, con un po’ di senso dell’orientamento e qualche riferimento visivo.
E’
bello perdersi, per poi ritrovarsi…
Mille domande mi ronzano come vespe, in
testa. In certi momenti non mi mollano. Non riesco a far nient’altro che
pensare, anche facendo altre cose. E cerco, rimuginando con i miei pensieri,
delle risposte. Non quelle universali, buone per tutti, già scritte sui libri,
ma quelle segnate in calce nel mio vivere, che per ora non riesco a leggere
perché mi mancano ancora i mezzi per farlo. Quindi, ripensandoci, non cerco risposte,
quelle ci son già. Cerco invece i mezzi per leggerle e farle mie.
Le ho cercate, e le sto cercando tra le
pieghe della mia vita. E tante ne ho trovate, ma mai pago ed ingordo cerco
ancora. Ma me ne mancano ancora tante all’appello!
Forse non ho vissuto abbastanza, ed il
tempo, sto imparando, abbisogna di pazienza per svelare segreti celati. Bisogna
avere pazienza, ma io ne ho poca. Ma la sto imparando, e i risultati non
tarderanno a venire. Come per incanto, giorno dopo giorno, compariranno i mezzi
per capire.
Compariranno come animali dal buio e
dovremo essere pronti ad accoglierli, come un ospite inaspettato, ma bramato a
lungo.
Le risposte son come l’amore, ci danno
conforto, sicurezza, gioia, forza, soddisfazione. La stessa che vedo trasparire
quasi sempre, nel volto consunto delle persone anziane. Gli anni, passando,
tolgono molte cose, ma immediatamente le sostituiscono con altre.
Caratteristiche di forza d’animo,
coraggio, lealtà, serenità, libertà. Proprio come gli animali nel loro
ambiente. Invecchiando ci si avvicina alla natura, si diventa noi stessi più
naturali. Forse si sente di non dover più per forza conquistare qualcosa,
niente d’inutile, ma solo vivere nel vivere il resto dei giorni a disposizione.
E non è poco!
Questa è libertà, la libertà di essere
liberi. Il coraggio di essere liberi. La libertà disinibita e matura,
conquistata con onore nei tanti anni trascorsi. Differente da quella dei
giovani, che spesso son come uccelli in gabbia, destinati a morire alla ricerca
della libertà.
E’ certo che la libertà, se desiderata,
e non capisco il contrario, va ricercata e conquistata a merito sul campo.
E
sarà un viaggio periglioso e lungo, ricco di tutto, e di più di tutto. Così
lungo che ci renderemo conto di stringerla tra le dita, spesso, quando ormai
vecchi, avrà perso un po’ del senso e lo smalto iniziale. A volte è più eccitante desiderare che ottenere!
Ma anche per questo, per capirci
qualcosa, e sulla propria pelle, val la pena vivere!
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MaxSolinas |
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MaxSolinas |
Al sol leggero
tutti i miei
sensi,
si affinano,
e lì (ti) respiro…
La scrittura come la lettura ci nobilita e regala emozioni. Buona continuazione. MaxS