martedi 10 SE CI SEI BATTI UN COLPO. ADESSO E' IL MOMENTO. ORA O MAI PIU'. NON RIESCO PIU' AD ASPETTARE.
E' così che un giorno d'improvviso capii. Ciò che mi faceva sentire vivo era qualcosa che lentamente era destinato ad ammazzarmi: i figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo pericolose e alte per gli alpinisti. E così mi ritrovai solo e depresso, e con nessuno con cui parlarne.
....continua... Quando vivevo a Belluno, fino a qualche
tempo fa, frequentavo sporadicamente Giorgio, uomo quarantenne, cieco completo
fin dalla nascita. Feci la sua conoscenza un giorno, in passeggiata con i
cavalli dell’amico Giuseppe di Rapallo, tra i boschi intorno a Belluno. Notai
subito questo tipo, occhiali neri inforcati sul naso, cavalcava e parlava
velocemente, conquistando tutti i partecipanti alla gita equestre. Rideva ad
alta voce, e notai che le sue labbra
accentuavano esageratamente i suoni vocali. Mi colpì così tanto che appena
potei mi avvicinai con il cavallo e con una battuta qualsiasi, mi presentai, e
cominciammo a parlare affiancati.
Ancora non avevo capito che non ci
vedeva. Ma avevo notato che, passando in certi tratti, nel bosco fitto, sotto
gli alberi, non si preoccupava minimamente di schivare i rami bassi,
prendendosi in faccia non proprio dolci
carezze. Pensai che parlava troppo e che questo lo distraeva da quel che faceva.
Non sarebbe stato, un buon compagno di cordata, dissi tra me e me! Troppo
distratto.
Mi resi conto della situazione solo
quando, all’ennesima sonora frustata di un ramo impertinente, Giorgio
schernendosi disse alzando la mano destra a mo’ di spada sfoderando tre dita:
“Tre son le cose, o i rami si scostano quando passo, ma non son di certo Dio, o
il cavallo mi avvisa in tempo dell’ostacolo, ma non parla, o la prossima volta
è meglio che mi metta un buon casco su
sta testa matta! “.
Cavolo. Giorgio non ci vedeva niente! Ed ero
io il quarto “o” che avrebbe dovuto avvisarlo degli ostacoli. Che figura!
Non avevo ancora capito che dietro
quelle lenti nere c’erano occhi che non vedevano, ma che nel suo cuore e nel
suo cervello c’era una spiccata, sviluppata ed intelligente ironia e voglia di
non farsi mancare niente, che lo faceva andare oltre gli ostacoli. E credo che
dovremmo imparare anche noi da queste semplici lezioni che la vita e le persone
meno fortunate ci danno.
Mi viene in mente un altro aneddoto
riguardo Giorgio di Belluno. Una tarda notte, reduce di abbeveraggi protratti
ad oltranza nelle osterie del bellunese, andavo con l’amico Mirco di Tassei in
macchina da Valmorel verso Belluno.
Dieci chilometri di strada in discesa, ripida e nera come l’asfalto che la
ricopre. Forse erano le due o le tre di notte,
ricordo bene che non c’era neanche un sottile spicchio di luna a
riaccompagnarci a casa dalle nostre scorribande spavalde. I due fari
dell’auto, fievoli come le nostre viste
annebbiate dalle ombre, cercavano di fendere la cortina nera delle tenebre e
farsi strada alla meglio, in direzione casa, senza più fermate. Procedevamo
giudiziosi poco più che a passo d’uomo. Dietro l’ennesima curva vedo
improvvisamente due persone camminare diligentemente a falcate vigorose, lungo
il bordo della strada. Ma ancora più vigorosamente, uno dei due, il più magro,
parlava con quell’ altro, agitando la mano non occupata dal bastone fine e
bianco. Giorgio ed un suo amico! Mi ricordavano Gianni e Pinotto, più per l’atteggiamento che per l’aspetto.
Ambedue muniti di occhiale nero da sole e bastone bianco nella mano destra, usato da
sonda. Rallento, mi accosto…”Ciao Giorgio, dove state andando? Ti do un
passaggio, è tardi e buio…”
Risposta: “ Grazie Max”, (riconosceva
dalla prima vocale, con assoluta precisione, la persona e relativo nome), “ma non abbiamo fretta,
preferiamo camminare, così digeriamo, e per quanto riguarda il buio, non è un
problema, abbiamo la torcia!“. E con quello alzò il bastone verso l’alto,
mimando il gesto d’illuminare, e ridendo, e ancora ridendo più forte, a metterci
alla berlina e schernirsi, riprese a camminare, e soprattutto a parlare. E
sarei curioso di sapere di cosa parlavano.
E
poi sapeva cantare e suonare la chitarra, anche quella di Giuseppe, al
maneggio, con tre corde in tutto. E viveva da solo, si faceva da mangiare ed
era amico di tutti.
Gli occhi di Giorgio sentivano cose che i
nostri possono solo vedere.
Il mondo è pieno di persone che non
vedono neanche con gli occhi abilitati a farlo.
Mi piacciono le mani che raccontano
quello che hai fatto fino a quel momento. Ne vedo con rughe profonde come
seracchi, palmi con più calli che dita, duri da incidere anche con uno
scalpello affilato, con dita grosse come cetrioli. E di contro dita lunghe e
ben tornite, agghindate da unghie maniacalmente
curate, con il bordo esterno,
colorato di bianco, chiamate french,
o con disegni e scritte tipo
tatuaggi. Certe addirittura con anelli, come orecchini, che sulle unghie come
si chiameranno: unghini? Scherzo. Son il contrario delle unghie bordate di nero
dell’olio bruciato, di certi meccanici all’antica, che “operano” ancora senza
guanti.
E poi vedo mani che già a colpo d’occhio
capisci che le dita non ci son tutte: due sì e una no, tre sì e due no, in
combinazioni ridicole ed imbarazzanti, ma che comunque san fare ancora il
proprio lavoro, sulle macchine infernali delle falegnamerie.
Altre che a volte non san nemmeno
scrivere il proprio nome, ma che sanno costruire case per vivere, curare prati
e boschi, e protendersi generose verso chi ha bisogno d’aiuto.
E raramente ho visto mani consumate,
raggrinzite, mutilate, essere nascoste. Al contrario le vedo spavalde,
coraggiose, fiere e forti, quando le stringo nei saluti. E queste mi piacciono,
e le apprezzo più di altre.
Ma, contrariamente a certi criticoni,
non sottovaluto quelle mani che proprio al primo incontro, alla stretta di mano
di rito, son sfuggenti e fragili, lisce e a volte sudaticce, con unghie ben
tagliate bianche e fragili come la neve. Sono mani che non hanno mai stretto martelli
e vanghe o rastrelli ed altri attrezzi, e tanto meno han toccato terra, alberi
o roccia. Son rimaste linde ed immacolate come appena nate.
Ma niente male, hanno solo scelto ed
intrapreso strade diverse, che non le han rese ruvide e nodose. Ma forse,
sebbene non si vedano, le grinze, i calli
e le vesciche per il lavoro le hanno fatte nel cervello, a forza di
farlo lavorare. E abbiam bisogno del loro lavoro.
Mi affascinano anche queste persone che
con il cervello ci lavorano. Lo usano, lo spingono, lo sforzano, lo sfruttano,
allenandolo, e facendolo lavorare onorevolmente. E usando il cervello, studiano soluzioni per aiutarci a risolvere
problemi legati alle malattie, alla natura. Per migliorare la qualità della nostra
vita, e studiare e trovare nuovi metodi
più evoluti e moderni per non sfruttare fino all’osso la Terra, e risolvere i
problemi che gli abbiamo creato.
Con il cervello, usato in maniera
lungimirante, si possono trovare soluzioni diplomatiche, per evitare di aver
nuove guerre e per risolvere quelle che dopo decenni ancora continuano.
Affinché le genti ed i popoli non debbano più uccidersi per un metro di terra
in più, magari di deserto, o solo perché si prega un Dio con un nome diverso.
Con il cervello si può imparare a
capire, e a capirsi un po’ di più. Si possono studiare sistemi e tecniche
affinché tutti gli abitanti del mondo possano avere almeno un pasto al giorno,
e acqua, bene diventato più prezioso dell’oro e importante come il sole e
l’aria per continuare a vivere. Trovare soluzioni di modo che la nostra amata
Terra possa durare nei secoli ancora, il più integra possibile, almeno come ce
l’hanno lasciata i nostri nonni, e consegnarla ai posteri, e ai nostri figli, e
i figli dei nostri figli e affinché possano goderne. E così per gli animali, e
alberi, mari, oceani e montagne.
Ecco perché mi affascinano anche le
persone con le mani nuove ed impeccabili, spesso scherno stupido e superficiale
di certe persone. Quelle mani appartengono spesso a esseri umani che usano
molto il cervello, e a cui non rimane tempo di usare le mani. Poco male, c’è
chi facendo il contrario rimette in equilibrio i piatti della bilancia.
Le mani, che mistero: l’uso, ma anche
l’inoperosità.
Guardo le dita della mia mano destra
stringer la penna trasparente che scorre veloce senza titubanze su questo
foglio bianco quadrettato. Più il foglio si colora e più il refill si svuota.
Forse muove il cervello più mondo che le
mani? A voi una risposta, anzi le risposte.
Le guardo, e ancora pensieri e
riflessioni mi incendiano il cervello. Ma allora anche il mio funziona…e sì che
l’aspetto delle mie mani non lo dimostra.
Le
mie mani sono Io,
vissute,
usate,
sporche,
ferite,
guarite,
riferite,
cicatrici,
volgari,
abitudine,
odore,
armi,
carezze,
ricerca,
sesso,
amore,
amare,
Le
mani che sanno.
Le
mie mani sono Io.
MaxSolinas 05
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